Una notte eravamo in Piazza Signoria seduti sulla base della fontana dell’Ammannati, un bel posto direi per discutere. «E chi ci chiappa più nulla nella scultura?» disse per concludere Vasco [Pratolini]; e Renzo [Grazzini]: «a me, invece, sembra molto chiaro.» Io non dissi nulla. Tutti e tre pensavamo alla stessa cosa, direi, ad una confusione di fatto e di idee e forse al semplice modo che doveva esistere per risolvere la questione. Ma come ogni cosa semplice, tale modo era terribilmente difficile. Vediamo di spiegarci: per me uno scalpellino delle cave di Maiano, quando squadra una bozza di pietra, è più scultore di quel distinto signore che, con fili di ferro e cappelletti di rame, ha armeggiato per mettere insieme quello strano e tintinnante arnese che ammirammo alla Guggenheim, e vi dirò, per essere chiaro, che squadrando la bozza di pietra lo scalpellino definisce una forma, un volume, del quale possiede un sentimento preciso: della sua consistenza nello spazio, dei suoi limiti, e della sua funzione. Compie insomma un lavoro che ha impliciti, sia pure inconsapevolmente, i termini più semplici e, a mio parere, immutabili del lavoro dello scultore. Il difficile viene subito dopo, voglio dire che ciò non basta, naturalmente, e nel punto critico nel quale le cose si complicano, dalla bozza alla statua, quasi sempre si perde di vista quel senso primordiale del quale parlavo: ed ecco la retorica e la non scultura. Ma vi sembra ciò sufficiente per rinnegare l’origine e per cambiare addirittura le basi del mestiere? Si possono chiamare scultura quelle gabbie di ferro, con piani di vetro o piombo, o quei rocchi bitorzoluti, forme captate nello spazio, urli di ruote, ossi e lattine, pezzetti di cartone ondulato con stecchi e peli ritorti? O considerare scultura l’angelo della morte o le colonne spezzate? Per esclusione dicemmo di no. Ed allora la scultura? Se si può darne una definizione, direi che è un lavoro, con i suoi requisiti di onestà, di ingegno e fantasia, di dignità e di ogni altra virtù atta a farne un’opera d’arte. Così il problema, se si esclude lo scherzo e l’Accademia, diviene chiaro almeno nelle intenzioni, se non ancora nelle sue forme. Questo il punto che probabilmente avevamo in comune, così ci alzammo e, passando sotto Orsanmichele, guardammo le statue nelle nicchie. Certo essi conoscevano il mestiere ed i suoi problemi e credo, per finire, che nessuna ragione vi sia per giungere a considerare le cose in modo, all’origine, diverso dal loro. Il resto dipende da noi. 1950
In una di quelle mezze giornate che mi rimanevano per lavorare stavo piegando i tondini per fare un’armatura. L’albero sotto la finestra dello studio sentiva il maestrale e i verdi accesi di smeraldo andavano schiarendo. Cadeva, in piccolissime gocce, una pioggia di colori illuminati dal sole. Mi parve di rivedere, sotto l’albero, una mezza figura di Renoir vista a Parigi: un torso di giovane donna, dai tratti lievi, sfiorata da riflessi di luce dorata, di un respiro fondo come il mare. Da giorni mi passavano per la testa immagini veloci, movimenti della figura che volevo mettere su. Tra i molti disegni fatti ne avevo scelto uno: un torso femminile, dal collo alle caviglie. Ora bisognava decidere, ma non riuscivo a vedere la materia da usare: bronzo e marmo erano fuori luogo, volevo una cosa viva. Il giorno prima avevo finito un disegno della banlieue parigina fatto con tecnica mista:collage, inchiostri, tempere. Forse avevo la soluzione. Su un piano di compensato mi misi a incollare pezzi di giornale e qualche pagina strappata da riviste, per il colore, fino a ricoprire tutta la superficie. Al centro posi il torso a colori, ritagliato dal disegno scelto. La struttura di base era montata; bisognava verificare. Il lavoro dell’istinto lasciava il passo a quello della ragione, per la ricerca di un equilibrio, di un rigore di stile. Solo allora i miei occhi incontrarono le parole, le notizie date dai quotidiani strappati: violenza, guerra, fame, rapine, arresti, niente rimaneva indietro. Per un istante il fatto artistico aveva annullato la realtà. Il suono improvviso di una sirena, polizia o misericordia, riportava a regolamenti di conti, a morti improvvise, come se ciò costituisse il corpo reale, il vero tessuto di una società di cui non riuscivo più a identificare il colore. E quelle sirene non ti lasciavano mai una pausa, il tempo di un respiro: un mondo che non riusciva più nemmeno a sbalordire. Come cancellare la fame di interi paesi, la guerra, la violenza? Ognuno di noi, anche se si era costruito una maschera, aveva tutto questo addosso. Il torso, ora, sembrava uscito da un fuoco, la materia non aveva retto e da una spaccatura usciva un liquido sporco. La plasticità della forma, il colore erano divenuti termini compiutamente astratti. La ricerca era scomparsa nella nebbia dell’indifferenza. 1968
1. Girava sopra di noi, da ore, come una bestia in agguato, la tempesta, ma non si decideva, sembrava pregustare l’assalto. Gli uomini correvano a cercare un riparo, a nascondersi, sapevano che li avrebbe aggrediti. Il cielo si caricava, un’aria elettrica livida chiudeva gli spazi. Un silenzio assoluto incombeva, rimpiccioliva, schiacciava ogni cosa. Il vento giocava una battaglia da giganti con le nuvole. La sentivo come un peso insostenibile, accorciava il respiro. Poi all’improvviso ci venne addosso con tutta la sua furia, incessante, tremenda, scuotendo tutto, uomini e cose. Poi, come tutte le cose, anche quella era passata, così parve ad ognuno di sentirsi più leggero, come liberato da un peso. Alzai la testa bagnata, la pioggia caduta per ore mi aveva lavato più fuori che dentro. 2. Erano i giorni più vuoti della mia esistenza. Neppure quelli della guerra mi avevano scosso tanto. Allora, travolto da quella tempesta, non avevo trovato altro che la rassegnazione. Questa volta l’assalto era feroce, la tempesta m’era scoppiata dentro, il dolore bruciava la ribellione, ma non avevo abbassato gli occhi. Discutendo si era fatto un bel pezzo di strada insieme. E’ come un figlio per me, un orso con un grande tenero amore per la mia bimba, mi sbaglio, per la sua donna. Parla volentieri con me, come a convincersi di certi suoi pensieri. I voli della fantasia – mi diceva – creano illusioni, fumo che il vento porta via. La realtà che hai scelto liberamente di costruire ogni giorno della tua vita non credo possa cambiare con un colpo d’ala. Era rimasto un po’ indietro, lo vedevo contro la macchia verde della campagna, a torso nudo, con un colore bruno, fresco, pulito. Aveva attraversato la tempesta quel ragazzo, accecato dal rosso del sangue e dal bianco delle garze, ma d’un tratto tornò la luce, tornò il sole. E a tutti noi sembrò di uscire all’aperto, aggrappandoci agli alberi, per alzare nuovamente gli occhi. 1976
A quell’ora, dopo pranzo, quando la gente si riposava, era uscito dagli esami ed era corso alla stazione a prendere il treno per tornare a casa. Con un fischio che sembrava un lamento, il treno si era portato via una mezza dozzina di disgraziati. Sbatacchiava più del solito la carrozza: era una di quelle con il peso degli anni e le sospensioni avevano ormai, come loro, perso ogni elasticità. I verdi della campagna lucchese erano sbiaditi nel tempo, tanti erano gli anni che faceva quella strada. Campi, frutteti, oliveti avevano perso colore, come il ritornello di una vecchia canzone cantata tante volte e della quale ora non ricordava più le parole. Gli erano rimaste negli occhi le pietre di Santa Maria, o meglio i sassi di San Giuliano, ghiacciati dalla luce scialba di quell’afosa giornata di luglio. Sembrava che guardasse il paesaggio, non lo vedeva però, andava con la mente a certi giorni della sua esistenza, a quelli che gli avevano lasciato dentro un segno. Ripensava a quando, da ragazzo, a Firenze, rimaneva per ore davanti a Masaccio e Donatello, alle immagini dell’amore e del dolore. Le aveva ritrovate nella vita queste immagini e aveva visto diminuire la loro grandezza morale, velocemente, verso la fuga di una prospettiva assurda. Anche la fede andava e veniva con l’instabilità dell’uomo, appariva e spariva, come un tronco in acque agitate, anche se poi molti avrebbero allungato il collo per rivederla, per ritrovarla. A quell’ora la fame gli era calata tra capo e collo, come una legnata; non aveva più la forza di pensare. Stava col naso contro il finestrino e nel fissare le chiazze di polvere segnate da schizzi d’acqua accumulate sul vetro, con la scorta di fantasia che gli era rimasta, in quegli strani arabeschi aveva intravisto un cespuglio. E si era scoperto a sorridere, come se le cose intorno avessero preso un senso: lei, cespuglio, così gli piaceva chiamarla per quella inimmaginabile testina piena di riccioli, gli sorrideva. Gli scambi di San Rossore lo avvisarono che stava per arrivare a Pisa. Aveva aperto il finestrino, d’istinto, come quando si guarda se c’è il treno per la coincidenza. Il ponte lo aveva accolto con la brezza fresca di un’alba marina, l’aveva ringiovanito. Per un istante gli parve che il telo grigio degli anni che portava addosso fosse scivolato giù dal ponte e si perdesse nelle acque increspate dell’Arno. 1980
Gli escalators ci avevano portato su, in cima, sulla terrazza. Fu lì che fatto alcuni passi l’uomo si fermò. Non era più un ragazzo, anche se lontano dalla mezza età. Attraversò la terrazza a testa china fino alla balaustra tubolare dove si appoggiò con gli avambracci. Sembrava guardare lontano, in fondo a quella vallata di case dove un sole malato segnava vaghi arabeschi di luce. Pareva frugare tra le pietre lucenti di quel mare bruno e turchese delle strade, alzava la testa, a tratti, come a seguire un cammino già fatto. D’improvviso volgeva la testa verso l’ingresso, come se aspettasse di vedere arrivare qualcuno, poi, lentamente, tornava a guardare nel vuoto, oltre i boulevards, dove, nel grigio della foschia, si perdevano i contorni di Parigi. Aveva sperato di vederla ancora sbucare dalla porta, come allora. La vedeva riflessa in cento immagini nei vetri intorno, con la gonna rossa alzata dal vento. La rivedeva corrergli incontro, gli tornava il suo profumo, il lento tendere delle braccia. Si ricordava ancora i giorni persi, ora che il tempo gli aveva disegnato mille fantasmi addosso, e sulla fronte un solco profondo come una ferita. – Una brutta storia, se è vera – disse Fabrizio. – Ognuno ha la sua storia – risposi. – Pensi di aver visto giusto? – Andiamo, via! Abbiamo speso una vita per cercare di vedere giusto: intuito, sensibilità, ma poi… il giusto qual è? Eravamo rimasti per ore giù, in galleria. Si tornava ogni anno, quasi un appuntamento segreto, per vedere, capire altre storie, non tanto per andare contro la tradizione o per trovare una giustificazione al rifiuto di un linguaggio internazionale che aveva affascinato le generazioni del dopoguerra di mezza Europa. Casomai per lasciare quel senso di provincialismo che ancora molti non erano riusciti a togliersi di dosso, anche se poi, dal fondo della “provincia” spesso erano nate grandi verità: il giusto e l’ambiguo mescolati ad arte. […] Vitaliano De Angelis: Poemi Incisi, Edizioni Stamperia della Pergola, Pesaro, 1992.